In questa guida parliamo di indagini preliminari nel processo penale, la fase iniziale del processo.
Il processo penale italiano infatti è suddiviso in diverse fasi, ognuna con un ruolo preciso. Si parte con le indagini preliminari, in cui si accerta se esistono elementi per formulare un’accusa. Se il pubblico ministero decide di proseguire, si apre la fase dell’udienza preliminare, dove il giudice valuta se rinviare a giudizio l’imputato. In alcuni procedimenti, come quelli davanti al giudice monocratico, si salta questa fase e si va direttamente al dibattimento.
Il cuore del processo è il dibattimento, in cui si formano le prove nel contraddittorio tra accusa e difesa. Le testimonianze, le perizie e i documenti raccolti vengono esaminati davanti al giudice, che deve valutare se l’imputato è colpevole o innocente.
A questa fase segue la sentenza di primo grado. Se una delle parti non è d’accordo, può presentare impugnazione, aprendo la fase del giudizio di appello. Dopo la sentenza di appello è possibile, in alcuni casi, ricorrere in Cassazione, che però non riesamina i fatti, ma verifica la correttezza giuridica della decisione.
Il processo può terminare con una sentenza di assoluzione, di condanna o con altri esiti, come l’estinzione del reato per prescrizione. In alternativa, l’imputato può accedere a riti alternativi, come il giudizio abbreviato o il patteggiamento, che consentono un processo più rapido, con sconti di pena e minore esposizione pubblica.
Le indagini preliminari, come già detto, rappresentano la fase iniziale del procedimento penale. Sono il momento in cui si raccolgono gli elementi necessari per decidere se esercitare o meno l’azione penale. Non si tratta ancora di un processo in senso proprio, ma di un’attività istruttoria svolta dal pubblico ministero, spesso in collaborazione con la polizia giudiziaria.
Questa fase è regolata dal Titolo III del Libro V del codice di procedura penale. Il suo obiettivo non è dimostrare la colpevolezza dell’indagato, ma verificare se esistono indizi sufficienti per chiedere il rinvio a giudizio. È una fase “a contenuto variabile”, che può concludersi rapidamente o durare mesi, a seconda della complessità del caso.
Il pubblico ministero è il titolare delle indagini. Decide quali accertamenti compiere, coordina la polizia giudiziaria e mantiene la direzione del procedimento. La polizia giudiziaria svolge attività materiale: raccoglie prove, esegue perquisizioni, sequestra oggetti, ascolta testimoni.
L’indagato non è ancora un imputato, ma ha già diritti tutelati. Ha diritto a un difensore e, in alcuni casi, a essere informato dell’indagine. Il giudice per le indagini preliminari (GIP) interviene solo se richiesto, ad esempio per autorizzare misure cautelari o intercettazioni. Il GIP garantisce la legalità delle indagini, senza condurre l’inchiesta.
Durante le indagini preliminari si compiono numerosi atti. Alcuni possono essere disposti autonomamente dal pubblico ministero, altri necessitano dell’autorizzazione del GIP. Tra gli atti più comuni ci sono l’identificazione di persone, l’assunzione di sommarie informazioni, l’ispezione di luoghi, il sequestro di oggetti, le intercettazioni telefoniche, le perizie tecniche.
Se emergono indizi di reato, il pubblico ministero può iscrivere il nome di una persona nel registro delle notizie di reato. Da quel momento quella persona assume la qualifica di indagato. L’indagato ha diritto di essere assistito da un avvocato e, in determinati casi, di essere informato del procedimento in corso.
Quanto durano le indagini preliminari? La durata delle indagini è regolata dall’art. 405 del codice di procedura penale. Di norma, non può superare sei mesi. Nei procedimenti più gravi o complessi, come quelli per reati associativi, il termine può essere prorogato fino a un anno o, nei casi più articolati, fino a diciotto mesi.
Il pubblico ministero ha l’obbligo di concludere le indagini entro questi limiti. Alla scadenza, può richiedere il rinvio a giudizio, chiedere l’archiviazione o presentare una richiesta di proroga. Se supera i termini senza fare nulla, la difesa può sollecitare l’intervento del GIP per ottenere la chiusura del procedimento.
Quando il pubblico ministero ritiene di avere raccolto elementi sufficienti per formulare un’accusa, invia all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini. Questo atto, previsto dall’art. 415-bis c.p.p., informa la persona indagata della possibilità di prendere visione degli atti e di presentare memorie, documenti o richieste di interrogatorio.
È un momento delicato, in cui la difesa può incidere sul destino del procedimento. Dopo aver valutato le eventuali osservazioni, il pubblico ministero può decidere se chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. L’avviso serve anche a evitare sorprese: l’indagato non può essere rinviato a giudizio per fatti che non gli sono stati contestati in questa fase.
Le indagini possono concludersi in diversi modi. Se non ci sono prove sufficienti, il pubblico ministero chiede al GIP l’archiviazione. Se invece ritiene che ci siano elementi idonei a sostenere l’accusa, chiede il rinvio a giudizio. In alternativa, può proporre riti alternativi come il patteggiamento o il giudizio abbreviato, se il difensore dell’indagato è d’accordo.
Il giudice per le indagini preliminari valuta le richieste del pubblico ministero. Se accoglie la richiesta di archiviazione, il procedimento si chiude. Se ritiene necessario un approfondimento, può disporre ulteriori indagini. In caso di rinvio a giudizio, il processo prosegue con l’udienza preliminare o direttamente con il dibattimento, a seconda della competenza del giudice.
Anche se dominate dal pubblico ministero, le indagini preliminari non sono un terreno neutro per la difesa. Fin dalle prime fasi, l’avvocato può compiere atti difensivi, nominare consulenti tecnici, accedere agli atti e chiedere accertamenti. In particolare, può raccogliere prove a discarico, assumere informazioni da testimoni, verificare la correttezza delle operazioni di polizia giudiziaria.
Una difesa attiva in questa fase può evitare errori, influenzare le decisioni del pubblico ministero e, in certi casi, ottenere l’archiviazione prima ancora che si arrivi in aula. Per questo è importante non sottovalutare il valore delle indagini preliminari. Sono il terreno su cui si costruisce tutto il processo penale.
Durante le indagini preliminari si raccolgono fonti di prova, non vere e proprie prove in senso stretto. Le fonti di prova sono tutti gli elementi utili a individuare, confermare o escludere l’esistenza di un reato e l’eventuale responsabilità di una persona. Sono raccolte dal pubblico ministero, spesso con l’ausilio della polizia giudiziaria, e includono documenti, testimonianze, rilievi tecnici, intercettazioni e consulenze.
Questi elementi non sono ancora prove vere e proprie perché non sono stati ancora formati nel contraddittorio tra le parti. Secondo il codice di procedura penale italiano, la prova si forma principalmente nel dibattimento, davanti al giudice, con la partecipazione attiva della difesa. Questo principio garantisce l’imparzialità e la trasparenza del processo.
Tuttavia, in alcuni casi previsti dalla legge, certe fonti raccolte in fase di indagine possono essere utilizzate direttamente come prove. È il caso degli atti irripetibili, come un’autopsia o un sopralluogo urgente. Oppure degli atti anticipati, come una testimonianza delicata assunta in incidente probatorio davanti al giudice. La difesa ha diritto di partecipare a questi atti e di esercitare il contraddittorio già in fase di indagine.
È importante distinguere tra ciò che serve a orientare l’attività investigativa e ciò che sarà davvero utilizzabile in giudizio. Le indagini preliminari servono anche a costruire le basi per raccogliere prove legalmente valide. Una cattiva gestione di questa fase può compromettere l’intero processo, soprattutto se le fonti non vengono acquisite correttamente.