La prova è un elemento importante del diritto, tanto in quello penale che in quello civile, in particolare in ambito processuale. In questa guida scopriamo cos’è la prova nei due rami del diritto, cos'è un incidente probatorio e l’onere della prova. Scopriamo in particolare come funziona l'onere della prova nel il risarcimento del danno da amianto.
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Coloro che hanno contratto una malattia professionale hanno diritto di richidere il risarcimento integrale dei danni subiti. Il datore di lavoro è considerato responsabile se non dimostra di aver adottato tutte le misure generiche di prudenza necessarie per la tutela della salute dei lavoratori. A seconda delle malattie causate dall'esposizione cambia l'onere della prova a carico del lavoratore.
Ma andiamo con ordine: cos‘è la prova in senso giuridico? Si tratta della dimostrazione dell’esistenza di determinati fatti giuridici, anche attraverso la dimostrazione dell’esistenza di altri fatti. Da questi ultimi infatti potrebbe essere possibile arguire l’esistenza dei fatti che s’intendono provare in prima istanza.
Come già accennato, l’istituto della prova esiste tanto nel diritto civile quanto in quello penale
La prova nell’ordinamento civile italiano è lo strumento attraverso il quale il giudice forma il suo convincimento riguardo ai fatti allegati dalle parti. Disciplinata sia dal codice civile che da quello di procedura.
Ci sono varie tipologie di prova, alcune simili a quelle penali, altre differenti, come ad esempio la prova legale che è assolutamente vietata nell’altro ramo processualistico.
Qui di seguito vediamo le differenze della prova nei due rami del diritto.
Nel processo civile, l’art. 116 del Codice di procedura civile adotta il principio del libero convincimento del giudice, rimettendo la valutazione delle prove (cd prove libere) al suo “prudente apprezzamento”, fatte salve le norme di legge che conferiscono ad alcune fattispecie di prova la natura di prove legali.
In questi casi il Codice Civile prevede esplicitamente che esse non possano e non debbano essere oggetto della valutazione del giudice, il quale può pertanto solo prenderne atto senza rilievo di ogni dubbio. Tipiche prove legali sono la confessione ed il giuramento.
Le prove nel diritto civile si differenziano in prove precostituite e costituende.
Le prove precostituite sono quelle che si formano fuori e, di solito, prima del processo, nel quale entrano attraverso un semplice atto di esibizione o di produzione. Ne sono un esempio i documenti o prove documentali che si formano fuori del processo e che entrano nel processo attraverso la loro inclusione nel fascicolo di parte al momento della costituzione o anche in seguito, fino alla precisazione delle conclusioni.
I documenti sono dotati dell’attitudine a produrre efficacia probatoria. In altre parole al giudice non rimane che valutarli nella fase di decisione e non in quella di istruzione. Sono documenti le scritture pubbliche o private, ma anche diverse rappresentazioni di fatti (ad esempio, fotografie e disegni).
Nel diritto processuale civile italiano le prove costituende, che si formano nel processo, necessitano di una doppia valutazione da parte del giudice istruttore. Devono cioè essere ammesse nel processo e in seguito valutate per la validità.
Le tre prove costituende (non documentali) principali, sono tutte di tipo orale e si differenziano dalle prove precostituite. Qui di seguito le vediamo una per una nel dettaglio.
«La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. La confessione è giudiziale o stragiudiziale.»
Quella giudiziale viene fatta direttamente in udienza. Basta semplicemente analizzarne il contenuto in quanto viene formata già provata, essendo davanti al giudice (cosiddetta probatio probata). La confessione giudiziale, ex art.228 c.p.c., può essere fatta spontaneamente o provocata da un interrogatorio formale.
La confessione stragiudiziale invece deve essere provata sia nel contenuto che nel suo effettivo accadimento, con testimonianza (se possibile) in caso di confessione orale, o con documento se scritta.
Oggetto della confessione può essere solo uno o più fatti della causa.
La confessione ha un’efficacia, almeno di regola, simile alla prova legale e vincola il giudice all’apprezzamento, salvo, però, che non verta su fatti relativi a diritti non disponibili. Questo nel caso di confessione giudiziale o stragiudiziale fatta alla controparte, mentre negli altri casi (fatta ad un terzo o in un testamento), è liberamente valutabile dal giudice. Deve essere, ovviamente, fatta da persona capace relativamente ai diritti oggetto della confessione stessa.
Il giuramento è la dichiarazione che una parte fa in giudizio della verità di determinati fatti, accompagnata dal solenne giuramento.
Il giuramento può essere solo giudiziale. Si distingue in Giuramento decisorio (deferito da una parte all’altra), Giuramento supplettorio (deferito dal giudice ad una parte in caso di semiplena probatio), Giuramento estimatorio (sempre deferito dal giudice ad una delle parti per determinare il valore dell’oggetto della causa).
Il giuramento non è sempre ammesso. Non lo è su fatti illeciti, su contratti che richiedono la forma scritta ad subtantiam, su diritti disponibili o su fatti che il pubblico ufficiale attesta esser avvenuti in sua presenza.
Se una delle parti si rifiuta di giurare si determina la soccombenza della stessa. È, dunque, una prova legale dotata di estrema forza.
La testimonianza è la dichiarazione resa da una parte estranea al processo, chiamata teste o testimone, su fatti rilevanti per la decisione della causa.
Il teste è invitato ad esporre i soli fatti materiali, senza dare alcun giudizio.
Ovviamente le dichiarazioni rese dovranno essere valutate da parte del giudice, in base alla loro compatibilità con gli altri elementi probatori che si ha a disposizione.
Nel processo civile è il giudice che pone le domande, d’ufficio o su istanza dei procuratori-difensori. Le parti e il p.m. (che è parte) non possono mai interrogare direttamente il testimone. Il giudice invece di solito si limita a controllare che le domande poste dagli avvocati siano formalmente legittime, e che siano poste in modo preciso e non ambiguo.
Ai sensi dell’art 251 c.p.c., il teste prima di rispondere deve sottoporsi a giuramento. La falsa testimonianza è reato punito con la reclusione.
Nel caso in cui il teste rifiutasse di prestare giuramento, rifiutasse di deporre senza giustificato motivo o qualora facesse dichiarazioni palesemente false, può essere denunciato dal giudice al p.m.
Le prove si definiscono dirette o indirette a seconda che siano idonee a dimostrare immediatamente un fatto senza alcuna operazione logica, oppure no.
Le prove indirette sono chiamate indizi e l’operazione logica che richiedono si chiama “presunzione semplice”. Disciplinata dall’art. 2727 c.c. , esso dispone che “le presunzioni sono le conseguenze che [la legge o ] il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato” che si aggiunge all’interpretazione degli indizi come presunzioni “gravi, precise e concordanti” ex art. 2729.
La prova di “verosimiglianza” sufficie nel caso in cui il convincimento sia fondato su un fatto affermatosi “credibile” o “verosimile” (come in sede cautelare si tratta di “fumus boni juris” che significa letteralmente il “fumo del bene giuridico” che ritradotto vale a dire il “sospetto dell’esistenza di un diritto”).
A seconda della loro intensità probatoria, le prove possono essere distinte in prove piene o di verosomiglianza: la seconda è richiesta quando la legge non chiede un fatto pieno, ma semplicemente uno probabile.
Altrimenti si può parlare di prova propriamente detta e argomento di prova: questo si concretizza in un fatto che da solo non è sufficiente a fondare il convincimento giudiziale, ma da cui tuttavia non si può prescindere in quanto possibile punto di riferimento per quest’ultimo.
L’assunzione dei mezzi di prova è disciplinata nel codice di procedura civile. Per le prove precostituite (documentali) basta la produzione e la valutazione, mentre per quelle costituende c’è un iter più macchinoso, basato su tre fasi:
Compito della direzione dell’assunzione delle prove è del giudice istruttore. Egli può assumere le prove direttamente (ad es. sentendo i testimoni in udienza) ovvero può provvedervi per mezzo di un incaricato (consulente tecnico d’ufficio, cd. CTU o perito).
Diversamente dal diritto penale, il diritto civile non ha un’apposita norma che vieti l’utilizzo delle prove contra legem, per cui nei contenziosi è utilizzabile la prova ottenuta illegalmente, nell’ambito dello stesso procedimento o eventualmente in procedimenti giudiziari di differente natura.
Ogni procedimento è autonomo nella valutazione della legittimità dell’acquisizione della prova, che potrebbe essere accolta ad esempio in un procedimento penale e non riconosciuta in un altro contenzioso.
Tuttavia, l’acquisizione già avvenuta in altri procedimenti può motivare l’acquisizione delle stesse nel processo civile, a maggior ragione per il fatto che nel diritto civile la valutazione di legittimità non è obbligatoria.
In diritto la prova legale è quella prova la cui attendibilità non è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice ma è predeterminata dal legislatore. In altri termini, l’inferenza che porta dal dato probatorio (factum probans) al fatto da provare (factum probandum) non è fatta di volta in volta dal giudice ma stabilita una volta per tutte dal legislatore.
Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale italiano nel 1989 la figura dell’investigatore è stata ammessa a comparire in processo in qualità di consulente tecnico della difesa. Nel nuovo rito infatti l’art. 190 c.p.p. stabilisce che “le prove sono ammesse a richiesta di parte”. Sancisce inoltre il “principio di parità fra difesa e accusa” (P.M., e difensore), sostanziato nel diritto di entrambi i soggetti alla ricerca delle prove.
Le prove nel diritto processuale penale italiano sono disciplinate dal Libro III del Codice di Procedura Penale. L’art.187 comma c.p.p., norma di apertura del Titolo I, in particolare chiarisce che:
La prova nel diritto processuale penale può appartenere a tre gruppi:
al complesso dei dati storici: la dimostrazione che un imputato ha commesso materialmente e storicamente ciò che gli viene imputato;
prova della punibilità ex art. 133 c.p.: i dati storici non sono sufficienti a provare la colpevolezza dell’imputato. Per questo motivo devono assumersi prove che escludano cause di giustificazione, cause di non punibilità ed infine la capacità di intendere e di volere;
fatti per la determinazione della pena: i fatti che sono assolutamente indispensabili per la determinazione della pena, posto che ne deriva la capacità a delinquere del soggetto e la gravità del reato.
La Prova materiale consiste in oggetti direttamente connessi ai fatti e rilievi della polizia scientifica sugli stessi oggetti. Questi ultimi vengono prelevati dalle forze di polizia e custoditi dall’autorità giudiziaria.
La Prova critica (o indizio), così come abbiamo visto parlando di prove nel diritto civile, consiste in quel ragionamento che da un fatto provato (la cosiddetta circostanza indiziante) ricava l’esistenza di un ulteriore fatto da provare. Questo può essere sia il fatto addebitato all’imputato (cosiddetto fatto principale), sia un fatto secondario (ossia un’altra circostanza indiziante).
Il collegamento fra la circostanza indiziante e l’ulteriore fatto da provare è rappresentato da un’inferenza, la quale è fondata o su una massima d’esperienza o su una legge scientifica.
L’indizio è funzionale alla ricostruzione di un fatto storico esclusivamente quando esistano altre prove che escludo una diversa ricostruzione dell’accaduto.
L’art. 192, comma 2, c.p.p. afferma che “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti”.
Gli indizi gravi sono quegli indizi che hanno un elevato grado di persuasività, in quanto resistenti alle obiezioni;
Si definiscono precisi quelli che sono stati ampiamente provati. Concordanti invece sono gli indizi che si orientano verso una medesima conclusione, riferendosi alla totalità delle prove critiche a disposizione del giudice per la ricostruzione del fatto storico.
La Prova storica (o rappresentativa) consiste in quel ragionamento che da un fatto noto (ad esempio ciò che riferisce un testimone nel corso di una deposizione) ricava l’esistenza di un fatto da provare. Si distingue dalla prova critica in ragione della struttura del procedimento logico che è sotteso a questa tipologia probatoria.
Tramite la prova rappresentativa, infatti, si prova un determinato fatto storico mediante un fatto noto. Tramite gli indizi, invece, un fatto storico viene provato grazie all’inferenza che lo lega ad un fatto già provato (inferenza basata su massime d’esperienza o regole scientifiche).
Anche la prova storica deve essere sottoposta al vaglio di attendibilità da parte del giudice; in particolare l’autorità deve effettuare un duplice controllo su:
Una prova si dice atipica, in senso generale e letterale, quando non trova disciplina all’interno del codice di procedura penale.
Viene definita atipica una prova che mira ad ottenere un risultato diverso da quelli perseguiti dai mezzi di prova tipizzati dal codice di procedura penale.
In una seconda accezione è considerata atipica quella prova che si svolge con modalità diverse da quelle previste da un mezzo di prova tipico. L’atipicità riguarda quindi la modalità di svolgimento.
In un terzo significato l’atipicità consiste nell’usare un mezzo di prova che persegue un determinato risultato per ottenere invece il risultato di un diverso mezzo di prova tipico, in una sede diversa o per un uso diverso da quelli previsti dalla legge.
L’art. 189 c.p.p. dispone:
“Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice procede all’ammissione sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova.”
L’assunzione delle prove è una fase molto importante e delicata, data l’incidenza che ha questo elemento riguardo l’esito del processo.
Il principio maestro è quello dispositivo, espressamente previsto dall’art.190 c.p.p., per il quale le prove sono ammesse dal giudice a richiesta di parte, salvo che siano contrarie alla legge o manifestamente superflue o irrilevanti. Oltre alla limitata possibilità del giudice di non ammettere la prova, è importante notare che l’iniziativa probatoria, dato l’aspetto accusatorio del processo penale, è quasi esclusivamente riservata alle parti. Il giudice provvede all’ammissione delle prove con ordinanza.
Attraverso il principio del libero coinvincimento, il giudice è vincolato a valutare tutti i fatti prodotti dalle parti, ma non ad utilizzare tali fatti necessariamente come prove. Infatti motivando la sua decisione (192 c.p.p.), può prescinderne o interpretarli diversamente da come sono stati prospettati dall’accusa o dalla difesa.
L’indizio deve essere grave, preciso e concordante, altrimenti il giudice non può ritenere accertato il fatto. Come già spiegato per quanto riguarda il diritto civile, la concordanza deve essere valutata unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.
L’incidente probatorio è un istituto del diritto processuale penale italiano previsto e disciplinato dall’art. 392 del codice di procedura penale italiano. Si chiama incidente perché è una procedura che avviene più raramente rispetto ai normali atti di indagine, o comunque in modo straordinario.
Consiste in un’udienza che si svolge in camera di consiglio (senza la presenza del pubblico). Ha la funzione di anticipare l’acquisizione e la formazione di una prova durante le indagini preliminari, purché pertinente e rilevante ai sensi dell’art. 190 c.p.p.
Lo scopo è quello di assumere una prova in una fase pregressa rispetto a quanto accade normalmente, non essendo possibile attendere sino al dibattimento.
Questa procedura viene scelta quando ci sono potenziali limitazioni di tempo legate alla formazione della prova. Si vuole evitare il rischio che, con il trascorrere del tempo, la fonte di prova si comprometta o venga meno la genuinità della prova stessa.
L’onere della prova è una regola che trova il proprio fondamento nel principio giuridico tradizionale secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit, che si sostanzia essenzialmente nel porre a carico della parte che allega un fatto a sé favorevole, il dovere di darne prova dell’esistenza.
In altre parole, secondo la lettera della legge (art. 2697, 1° comma, c.c.), “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Allo stesso modo, “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda” (art. 2697, 2° comma, c.c.).
La regola dell’onere della prova può essere intesa sia in senso soggettivo, sia in senso oggettivo.
Nel primo caso questo principio s’intende come l’onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento delle pretese, per fornire al giudice tutti gli elementi necessari e sufficienti affinché egli addivenga ad una decisione corretta e consapevole.
L’onere della prova in senso oggettivo consente invece, al giudice, di emettere in ogni caso la decisione in merito all’accoglimento o al rigetto della domanda, quando, nonostante l’attività probatoria, egli non sia riuscito a raggiungere la verità dei fatti.
All’attore si richiede di provare i fatti che stanno alla base della propria domanda, mentre al convenuto spetta dimostrare la non veridicità di questi fatti, ovvero la loro inidoneità a costituire valido fondamento della domanda dell’attore o ancora provare l’esistenza di altri fatti capaci di modificare o estinguere il diritto dell’attore.
I mezzi di ricerca della prova tipici sono disciplinati nel Titolo III del Libro III del codice di procedura penale italiano. Essi sono:
L’esposizione alle fibre di amianto causano gravi malattie. In primo luogo infiammazioni (asbestosi, placche eed ispessimenti pleurici) e neoplasie. Tra queste il mesotelioma è uno dei più aggressivi (pleurico, pericardico, peritoneale e della tunica vaginale del testicolo).
In caso di malattia professionale, contratta a seguito dell’esposizione continua alle polveri di amianto, il datore di lavoro è responsabile se non dimostra di aver adottato tutte le misure generiche di prudenza necessarie per la tutela della salute dei lavoratori. Sarà in questo caso responsabile del danno causato e chiamato a risarcire il danno subito dal lavoratore.
La vittima di malattia asbesto correlata ha diritto la risarcimento integrale dei danni, patrimoniali e non patrimoniali. Per quanto riguarda i danni non patrimoniali a quello biologico si aggiungono il danno morale e quello esistenziale, che passano agli eredi legittimi in caso di morte del malato riconducibile al danno subito.
Nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi nella duplice componente di danno biologico “terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, e di danno morale consistente nella sofferenza patita dal danneggiato che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita.
La liquidazione equitativa del danno in questione va effettuata commisurando la componente del danno biologico all’indennizzo da invalidità temporanea assoluta e valutando la componente morale del danno non patrimoniale mediante una personalizzazione che tenga conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile “exitus”.
In caso di patologie asbesto correlate, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo.
Questo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
L’accertamento, richiedendo un riscontro sulla condotta, sul nesso di causalità, sull’evento e sul pregiudizio, ha carattere fortemente valutativo, e pertanto la verificazione spetta al giudice.
L’inosservanza degli obblighi di protezione espressamente previsti per la tutela del lavoratore dalla normativa antinfortunistica all’epoca vigente comporta responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c.
Le acquisizioni istruttorie sono sufficienti a provare il nesso di causalità tra esposizione del lavoratore all’amianto e malattia contratta. Deve essere così riconosciuto in via equitativa agli eredi il c.d. danno differenziale dal quale si detrae la rendita INAIL, anche se la vittima non ha ancora fatto domanda all’Istituto assicurativo.
Approfondisce la questione del nesso di causalità il magistrato Beniamino Deidda della Procura di Firenze nel suo intervento "Stato della Magistratura su condanne per amianto" durante il convegno del 14.11.2012 "Lotta all'amianto: il Diritto incontra la scienza".
L’INAIL ha inserito le patologie asbesto correlate di origine professionale in tre liste. Nella Lista I compaiono quelle a elevata probabilità di origine lavorativa:
Queste patologie sono assistite dalla presunzione legale di origine. Quindi sul lavoratore grava l’onere della prova della sola presenza della noxa patogena nell’ambiente lavorativo, come precisato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 23653/16.
In particolare, per quanto riguarda il mesotelioma esiste un rapporto causale pacificamente riconosciuto tra mesotelioma pleurico ed esposizione all’amianto.
Pertanto, ove l’esposizione lavorativa sia accertata, può ritenersi dimostrata la rilevanza causale di quest’ultima rispetto alla patologia insorta anche a notevole distanza di tempo. L’intervallo di tempo tra l’esposizione stessa e l’esordio di tale malattia è attualmente valutato infatti nell’ordine dei 20-40 anni, così come confermato dallo IARC nella sua monografia dedicata all’asbesto.
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Nella lista II, in cui l’origine lavorativa è di limitata probabilità, sono state inserite dall’INAIL le seguenti patologie:
Infine nella lista III, in cui l’origine lavorativa è possibile, è inserito solo il tumore dell’esofago.
Queste ultime liste non hanno la presunzione legale d’origine. Perciò spetta al lavoratore dimostrare il nesso causale. Soltanto attraverso i dati epidemiologici è possibile ottenere la conferma del dato scientifico della riconducibilità causale di diverse altre patologie, in particolare quelle della lista II e III, all’esposizione ad amianto.