In questa guida ci occupiamo di demansionamento, ovvero delle mutazioni delle mansioni lavorative del lavoratore. Scopriamo cos'è nel dettaglio, come si quantifica e quando è illeggittimo. Vediamo il quadro normativo di riferimento e scopriamo quando è possibile richiedere un risarcimento dei danni da demansionamento subiti.
Cos'è il demansionamento? Ogni lavoratore ha diritto a mantenere un ruolo coerente con quello per cui è stato assunto. Quando questo non succede, e un dipendente viene assegnato a compiti inferiori rispetto alle sue competenze o qualifiche, si parla appunto di demansionamento.
Immagina, ad esempio, un responsabile marketing che, senza una valida ragione, venga retrocesso a un ruolo di semplice assistente. Non è solo una questione di orgoglio: si tratta di un cambiamento che potrebbe danneggiare la sua professionalità, la sua carriera futura e persino il suo equilibrio psicologico.
Per capire meglio, è importante fare una distinzione tra due concetti chiave: la mutazione delle mansioni e il demansionamento vero e proprio. La mutazione delle mansioni si riferisce al cambiamento del ruolo che il lavoratore svolge in azienda. Questo cambiamento non è di per sé negativo: può trattarsi di un adattamento alle esigenze aziendali, senza che il lavoratore subisca una perdita di professionalità o di prestigio. Il demansionamento, invece, è qualcosa di diverso e più grave. Avviene quando il lavoratore viene assegnato a compiti nettamente inferiori rispetto al suo livello di competenza o alla posizione che ricopriva. In questi casi, si può parlare di violazione dei diritti del dipendente.
Per capire se c’è stato davvero un demansionamento, bisogna guardare a vari aspetti. Prima di tutto, bisogna confrontare le mansioni precedenti con quelle nuove: le nuove mansioni sono meno complesse? Richiedono meno responsabilità o competenze? Se sì, c’è già un forte indizio. Poi bisogna considerare l’impatto: questo cambiamento ha ridotto le possibilità di crescita professionale? Ha svalutato il ruolo del lavoratore all’interno dell’azienda?
Il demansionamento non è sempre illegittimo, ma lo diventa in molte situazioni. Ad esempio, se un lavoratore viene declassato senza una motivazione valida o se il cambiamento viola la sua dignità professionale, il demansionamento non può essere accettato. Non è neppure permesso ridurre lo stipendio come conseguenza del cambio di mansioni, a meno che non ci sia un accordo scritto tra datore di lavoro e lavoratore.
Il datore di lavoro ha un diritto, chiamato "ius variandi", che gli consente di modificare le mansioni di un dipendente per adattarsi alle esigenze aziendali. Tuttavia, questo diritto non è illimitato. Il datore può assegnare nuove mansioni solo se sono equivalenti a quelle precedenti, cioè se richiedono un livello simile di competenze e responsabilità. In alcune situazioni particolari, come una riorganizzazione aziendale o problemi di salute del lavoratore, può essere consentito assegnare mansioni inferiori, ma sempre con molta attenzione ai diritti del dipendente.
Per approfondire, il Codice Civile e il Jobs Act del 2015 sono i riferimenti principali. L’articolo 2103 del Codice Civile stabilisce che un lavoratore non può essere demansionato senza una ragione valida. Il Jobs Act, invece, ha introdotto alcune flessibilità: ad esempio, in caso di crisi aziendale o riorganizzazione, le mansioni possono essere modificate, purché il tutto sia gestito con il consenso del lavoratore. Ma al di là delle norme, il principio fondamentale resta la tutela della dignità e della professionalità del dipendente.
Prima degli anni ’70, il datore di lavoro poteva, senza alcun limite, disporre l'arretramento della posizione professionale del lavoratore. Nel 1970, lo statuto dei lavoratori intervenne cancellando questa possibilità ed inserendo il criterio di equivalenza. In seguito l’art. 3 del d.lgs. 15.06.2015 n. 81 ha ulteriormente modificato la disciplina legale delle mansioni con la possibilità del datore di far svolgere al lavoratore, ai sensi del comma 1 dell’art. 2103 c.c., mansioni per le quali è stato assunto o riconducibili al livello professionale di appartenenza, purché rientranti nella medesima categoria legale. La contrattazione collettiva, dunque, ha assunto un ruolo determinante, poiché la nuova formulazione dell’articolo 2103 c.c. affida ad essa il compito di definire gli inquadramenti professionali dei lavoratori, il tutto in linea con l’attuale impianto normativo.
Il comma 2 dell’articolo 2103 c.c. recita: “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.
L’utilizzo del verbo incidere allude alla possibilità del datore di lavoro “di retrocedere il lavoratore a una mansione inferiore se adotta una riorganizzazione (di più ampio respiro oppure anche circoscritta, al limite, al lavoratore interessato) che incide in modo diretto sulla posizione del lavoratore. L’indagine che può svolgere, in tale circostanza, il giudice, ha ad oggetto la veridicità della scelta aziendale a monte e l’esistenza di un nesso di causalità fra tale scelta e il demansionamento del lavoratore”.
L'atto legittimo di variazione in pejus delle mansioni si basa quindi sulla veridicità della scelta aziendale e il nesso di causalità fra la tale scelta e il demansionamento del prestatore di lavoro.
In ogni caso, le previsioni di cui ai commi 2 e 4 dell’art. 2103, devono essere comunicate per iscritto al lavoratore, pena la nullità dell’atto di assegnazione a mansione di livello inferiore del lavoratore. Inoltre, in un’ottica garantista, al lavoratore deve essere corrisposto il trattamento retributivo d’origine, fatta eccezione per quegli elementi strettamente connessi alla mansione di provenienza.
Il comma 6 dell’articolo 2103 c.c. recita: “nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.
Quindi perché questi accordi individuali siano legittimi, e non nulli, è quello della stipulazione degli stessi davanti al giudice istruttore nell’udienza di conciliazione, o d’avanti all’ispettorato del lavoro, o nella sede sindacale, o davanti al collegio di conciliazione ed arbitrato individuato dalla contrattazione collettiva, o nella sede del collegio di conciliazione di ed arbitrato irrituale, nonché davanti alle commissioni di certificazione.
Quando un demansionamento è illegittimo, il lavoratore può chiedere giustizia. Le strade da percorrere sono diverse. Ricorrere a un avvocato o a un sindacato per ottenere supporto è la migliore strada da percorrere.
In caso di confermata illegittimità, si può agire legalmente. Il giudice del lavoro può ordinare il ripristino delle mansioni originarie e, in alcuni casi, anche il risarcimento dei danni. I danni risarcibili possono essere sia patrimoniali, come la perdita di reddito o i costi sostenuti per cercare una nuova occupazione, sia non patrimoniali. Questi ultimi includono il danno alla professionalità, cioè la perdita di competenze e opportunità, e il danno alla dignità, che comprende l’umiliazione e lo stress causati dalla situazione.
Se sospetti di essere vittima di un demansionamento, il primo passo è documentare tutto. Conserva email, lettere o comunicazioni aziendali che dimostrino il cambiamento delle tue mansioni. Poi rivolgiti a un avvocato esperto in diritto del lavoro o a un sindacato: loro sapranno dirti se ci sono le basi per agire.
In ogni caso, è importante ricordare che i diritti del lavoratore sono tutelati dalla legge. Il demansionamento non è una punizione che il datore può infliggere a piacimento: ci devono essere sempre delle motivazioni valide, e queste devono essere chiaramente dimostrabili.