In questa guida parliamo del Giudizio di Appello nel processo penale e del suo funzionamento.
Il processo penale è un percorso complesso, fatto di tappe ben definite, ciascuna con una funzione precisa: dall’iscrizione della notizia di reato, alle indagini preliminari, dall’udienza preliminare al dibattimento, fino alla sentenza. Ogni fase serve a stabilire se un reato è stato effettivamente commesso e, in caso affermativo, se l’autore debba essere punito. Una volta pronunciata la sentenza di primo grado, però, la vicenda processuale non si chiude sempre in modo definitivo. Al contrario, il nostro ordinamento riconosce alle parti la possibilità di chiedere un nuovo esame della decisione, per correggere eventuali errori o valutazioni sbagliate. È qui che entra in gioco il giudizio di appello.
Il giudizio di appello ha un ruolo fondamentale nel sistema giudiziario italiano. Non rappresenta soltanto un’ulteriore occasione per l’imputato o per l’accusa, ma una garanzia a tutela dell’equità del processo. Permette infatti di rimediare a errori, omissioni, interpretazioni frettolose o semplicemente opinabili, offrendo una seconda lettura dei fatti e delle responsabilità.
Il giudizio di appello è ciò che comunemente si definisce "secondo grado di giudizio". Si tratta di una fase successiva al primo processo, ma non di un nuovo processo nel senso pieno del termine. È una tappa in cui la sentenza viene sottoposta a un nuovo vaglio da parte di un giudice superiore, che potrà confermare o modificare quanto già stabilito.
L’appello, dunque, è uno strumento fondamentale per garantire un controllo sulla correttezza del giudizio di primo grado, nel rispetto del principio di legalità e del diritto alla difesa.
L’appello è previsto e regolato dal Codice di procedura penale, precisamente dagli articoli che vanno dal 593 al 605. Ha una funzione di garanzia, poiché permette a chi ritiene ingiusta la sentenza di primo grado – che si tratti dell’imputato, del Pubblico Ministero o di altre parti – di chiedere che quella decisione venga rivista. Ma non si tratta di una revisione automatica o totale: il giudice di appello esamina soltanto i punti della sentenza che sono stati indicati come errati. Non è chiamato a ripetere l’intero processo, ma solo ad analizzare gli aspetti contestati attraverso i motivi d’impugnazione.
Questa seconda valutazione è definita "di merito" proprio perché il giudice può tornare ad analizzare i fatti e non soltanto le questioni giuridiche. Tuttavia, ciò che rende l’appello davvero particolare è il fatto che non esistono motivi rigidi o predefiniti per proporlo: si parla perciò di una forma a "critica libera". È la parte che impugna a stabilire quali errori ritiene siano stati commessi. Tuttavia, il giudizio rimane "parzialmente devolutivo", cioè limitato proprio a quei punti specifici segnalati come problematici.
A seconda del tipo di sentenza impugnata e del giudice che l’ha emessa, l’appello può essere deciso da organi diversi. Se si tratta, ad esempio, di una sentenza pronunciata dal giudice di pace, sarà un tribunale monocratico, composto da un solo magistrato, a esaminarla in appello. Quando invece l’appello riguarda sentenze di tribunali, a decidere è la Corte di Appello, composta da un collegio di tre giudici togati. Nei casi più gravi, come quelli di omicidio o altri reati particolarmente complessi, entra in gioco la Corte d’Assise d’Appello, mentre le sentenze emesse dal Tribunale per i minorenni sono valutate in secondo grado dalla Corte d’Appello Sezione Minori.
L’iniziativa di impugnare una sentenza può partire da più soggetti. L’imputato può decidere di appellarsi, ad esempio, se ritiene di essere stato condannato ingiustamente o in modo troppo severo. Il Pubblico Ministero può proporre appello nel caso in cui non condivida una sentenza assolutoria o giudichi una pena troppo lieve. Anche la parte civile – ossia chi si è costituito in giudizio per ottenere un risarcimento – può impugnare la sentenza, ma solo per gli aspetti che riguardano direttamente il danno subito, e non per le questioni penali in senso stretto. Chi presenta l’appello viene definito "appellante", mentre l’altra parte assume il ruolo di "appellato".
Il giudice che affronta il processo in appello ha poteri molto ampi, simili a quelli del giudice di primo grado. Tuttavia, il suo intervento è circoscritto ai capi della sentenza oggetto dell’appello. Questo significa che non può entrare nel merito dell’intera decisione, ma solo delle parti contestate. Il contenuto concreto dei suoi poteri cambia però a seconda di chi abbia proposto l’impugnazione.
Se l’appello è stato presentato dal Pubblico Ministero, il giudice può aggravare la posizione dell’imputato, ad esempio inasprendo la pena o modificando la qualificazione giuridica del fatto in senso più grave. Può inoltre revocare benefici precedentemente concessi oppure applicare nuove misure di sicurezza. In caso di assoluzione, la Corte può persino arrivare a emettere una condanna.
Quando invece l’appello è stato proposto solo dall’imputato, la legge prevede una forma di tutela rafforzata: il giudice di appello non può aumentare la pena, né applicare provvedimenti più sfavorevoli rispetto alla sentenza di primo grado. Questo principio, chiamato "divieto di reformatio in peius", serve a proteggere l’imputato da conseguenze peggiori quando è lui stesso ad appellarsi.
Il giudizio di appello si basa per lo più sulla documentazione raccolta nel primo grado e non prevede normalmente la ripetizione dell’attività istruttoria. Non vengono cioè raccolte nuove prove, né si risentono i testimoni. Il processo si apre con una relazione introduttiva in cui i giudici riassumono il contenuto della sentenza impugnata e i motivi per cui è stato presentato appello. Segue poi l’intervento del Pubblico Ministero, rappresentato di solito da un procuratore generale, spesso con maggiore anzianità rispetto al PM del primo grado.
Successivamente prende la parola la difesa, che può illustrare le ragioni per cui ritiene la sentenza ingiusta. Anche l’imputato, come sempre, ha diritto all’ultima parola. Terminata la discussione, la corte si ritira in camera di consiglio e, dopo aver deliberato, emette la sentenza di secondo grado.
Come si è detto, in appello non si ripete il processo, ma si discute sui materiali già acquisiti. Tuttavia, in casi eccezionali, il giudice può decidere di rinnovare l’istruttoria, cioè di acquisire nuove prove. Questo accade solo quando emergono elementi nuovi e decisivi, oppure quando le prove raccolte nel primo grado risultano lacunose, contraddittorie o manifestamente insufficienti. In tali casi si può disporre, ad esempio, una nuova perizia, un nuovo esame di testimoni o l’introduzione di documenti che, per motivi oggettivi, non erano disponibili durante il processo precedente.
Una volta concluso il giudizio, la corte di appello può confermare integralmente la sentenza di primo grado, oppure riformarla. La riforma può essere parziale, cioè limitata ad alcuni aspetti, o totale. In casi più rari, il giudice può anche annullare la sentenza e, se necessario, rinviare gli atti a un altro giudice affinché si celebri un nuovo processo.